venerdì, dicembre 05, 2003

IL SANGUE DEI VINTI ED IL PCI

Il nuovo libro di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti ha riacceso l'interesse sulle vicende tragiche che hanno contraddistinto il biennio successivo alla Liberazione in alcune regioni italiane, in primis l'Emilia Romagna e in particolare la provincia di Modena. Il famoso giornalista di sinistra è stato ospite della trasmissione Excalibur di Raidue condotta da Antonio Socci, e ad essa ha partecipato in qualità di esperto anche il modenese Giovanni Fantozzi, autore anni fa di una ricerca sull'argomento. All'epoca io avevo recensito il libro di Fantozzi per il quotidiano Gazzetta di Modena, che aveva ospitato anche un successivo scambio di opinioni. Ritengo interessante riproporre ora quei miei testi, le cui tesi mi sembrano essere state suffragate dagli ultimi studi in materia, quali quelli di Di Loreto, Aga Rossi, Woller.


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GAZZETTA DI MODENA, 20 maggio 1990, pagina 23


Un libro sull’ordine pubblico nel modenese dopo la Liberazione
CRIMINI E MISFATTI
Delitti, rapimenti e inquietanti episodi segnarono un torbido biennio. Quale fu la responsabilità del Pci? Il «teorema» di Giovanni Fantozzi. Una ricerca scrupolosa ma poco convincente riapre un’annosa querelle”.


di Roberto Gazzotti

Nei due anni successivi alla Liberazione in provincia di Modena si contarono circa un migliaio di delitti. Le vittime erano perlopiù possidenti, agricoltori, commercianti, attivisti democristiani, sacerdoti (ben 22 furono i preti assassinati in quel breve lasso di tempo). I responsabili di tali delitti, accusati e condannati dai tribunali con sentenze definitive, erano per la maggior parte persone che avevano partecipato alla guerriglia partigiana e simpatizzavano, quando non ne avevano addirittura la tessera, per il Pci.
Come scrive Miriam Mafai nella sua biografia di Pietro Secchia, il grande vecchio del Pci, l’uomo che sognava la lotta armata: «Generalmente difesi da avvocati del Pci, gli imputati di quei processi non dissero mai una parola che potesse in qualche modo coinvolgere nella loro vicenda il partito di cui facevano parte. Accusati, scontarono anni di carcere, quando non riuscirono a rendersi latitanti. Nessun tribunale riuscì mai a dimostrare, nonostante tutti i tentativi fatti, una qualche responsabilità di dirigenti ed organizzazioni del Pci».
A quei tragici avvenimenti ha dedicato ora una scrupolosa ricostruzione Giovanni Fantozzi, già consigliere comunale della Dc e giornalista delle pagine modenesi del «Giornale» di Montanelli. Nel suo libro «Vittime dell’odio. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945 – 1946)» (Europrom edizioni, Bologna 1990, 180 pagine, lire 18.000), vengono rievocati con efficacia e ricostruiti con puntiglio i fatti più salienti di quel tormentato biennio, dalla carneficina di sacerdoti in pianura e in montagna ai delitti del «triangolo della morte» in quel di Castelfranco, dai rapimenti ed assassinii di Redù e di Nonantola al caso del giovane attivista democristiano Missere, all’inquietante e lunghissima vicenda della «corriera della morte» scomparsa in quel di Concordia col suo carico umano, a tanti altri nefandi misfatti.
Nessun dubbio ha Fantozzi sull’organizzazione scientifica di tutta quella carneficina: «Le proporzioni del fenomeno risultano estremamente elevate e tali da non poterle certo ritenere il frutto di un moto spontaneo popolare di vendetta contro fascisti e di “azioni di giustizia” individuali. Questi avvenimenti devono invece essere inquadrati nel particolare clima di tensione politica e sociale alimentato dal Pci nell’immediato secondo dopoguerra. Esplorando in questa direzione, è possibile ricondurre lo stillicidio di episodi tanto apparentemente diversi tra loro ad un’interpretazione politica unitaria».
Insomma, ci troviamo davanti ad un «teorema Fantozzi». Avevamo già avuto un «teorema Calogero», quello sostenuto dal magistrato che voleva Toni Negri e gli altri imputati del 7 aprile padovano capi indiscussi delle Brigate Rosse e assassini di Moro, e non solo capi dell’Autonomia veneta e lombarda. Poi i processi ridimensionarono il «teorema» tutto fondato sulle illazioni e i collegamenti logici non confortati da prove empiriche, Negri e soci furono ritenuti colpevoli di ben individuati e limitati episodi criminali e scagionati dall’accusa totalizzante di essere i capofila di tutta l’eversione e la lotta armata.
Ma lasciamo ancora illustrare a Fantozzi il suo teorema: «In primo luogo la violenza omicida imperversò per tutto il 1945 ed il 1946, per quasi scomparire nel 1947 in parallelo ad un’energica azione repressiva delle forze di polizia. In secondo luogo, i protagonisti di questi atti criminosi risultarono nella stragrande maggioranza ex partigiani, quasi tutti iscritti o simpatizzanti del Pci. In terzo luogo, le vittime, pur nell’estrema varietà di specifiche condizioni personali, rientravano quasi tutte in quella più vasta categoria politica e sociale che nel linguaggio rivoluzionario di allora veniva definita dei “nemici di classe”. Infine, è un dato di fatto, che quest’esplosione di violenza ebbe dimensioni non riscontrabili in altre regioni, ed in particolre si dispiegò in quelle provincie dove più forte era l’egemonia politica del Pci (oltre a Modena, Reggio, Bologna, Ferrara). L’ampiezza e la durata di questo fenomeno mettono dunque in causa il ebbe dimensioni non riscontrabili in altre regioni, ed in particolre si dispiegò in quelle provincie dove più forte era l’egemonia politica del Pci (oltre a Modena, Reggio, Bologna, Ferrara). L’ampiezza e la durata di questo fenomeno mettono dunque in causa il esponsabili dei delitti politici con il Partito Comunista” come scrive anche lo storico Pietro Scoppola».
Decisamente è un «teorema» che prova troppo; non c’è connessione tra la materia narrata e l’ipotesi interpretativa, insomma mancano i riscontri obiettivi. Non riuscirono i tribunali negli anni ’50 a coinvolgere direttamente il Pci nella carneficina e nei massacri dell’immediato dopoguerra, e non ci riesce oggi neppure Fantozzi con artefici verbali.
Proviamo un attimo ad argomentare quel che di poco convincente c’è nel «teorema Fantozzi». Innanzitutto non risponde al vero che già il 25 aprile 1945 il Pci egemonizzasse tutta la società modenese (questo non sarà vero neppure per gli anni successivi, fortunatamente). Tra i documenti che Fantozzi cita ce n’è uno, ricavato dalla storia della repubblica di Montefiorino scritta da Ermanno Gorrieri, che racconta, in tempi non sospetti, una storia diversa.
Si tratta della relazione inviata il 12 luglio 1944 al Corpo Volontari della Libertà da Osvaldo Poppi, il “Commissario” Davide, capo dei partigiani comunisti. Scrive Poppi in quella lettera: «La gran massa dei partigiani è composta da anarco-contadini. L’istinto alla ribellione, l’impulso alla preda è l’incentivo maggiore all’entrata in azione di tali formazioni paesane. E in mezzo a tale ambiente incandescente io e pochi altri compagni coscienti abbiamo operato per educare, disciplinare queste forze incoscienti. Rifiutare l’inquadramento nella Brigata Garibaldi di tutti questi ribelli e mezzo predoni, si rischierebbe di rimanere avulsi dalla grande massa lasciata fuori dal nostro controllo, perdere la possibilità di operare all’interno quell’opera di educazione politica che solo ci darà agio di diventare un partito di massa. Giudico che la gran massa sia educabile e plasmabile e tale opera di elevazione e di indirizzo politico possa essere compiuta solo rimanendo a contatto, cioè attirandola sotto la nostra direzione».
Chiaro? L’obiettivo è quello di arrivare al controllo (che non c’è) di un movimento spontaneo, magmatico, che va per conto suo, disperso in tanti rivoli.
Leggendo la stampa dei giorni successivi alla Liberazione c’è l’eco di questa situazione in magmatico movimento nella quale nessuno controlla alcunché, nessuno sa come andrà a finire, formazioni partigiane rivali si accusano a vicenda di aver fatto sparire bottini di guerriglia, di aver intascato tesori, di creare disordini. Tutto questo Fantozzi lo ha scartato: se lo avesse preso in considerazione le sue certezze sarebbero state meno granitiche. Alla luce di tutto ciò allora diventa plausibile la tesi che la carneficina sia stata opera di elementi autonomi, «ribelli e mezzo predoni» che diventano assassini, non sapendo ritornare alla vita normale. All’osservazione che gli omicidi durano fino al 1947 si può obiettare che quei due anni sono forse stati temporalmente necessari per passare da un periodo di guerra civile ad uno di normale legalità, in presenza di un gran numero di «schegge impazzite».
Nel 1946 ci sono le prime elezioni libere (il Pci è il terzo partito nazionale con il 19% dei voti, superato dal Psi con il 21% e dalla Dc con il 35%). Nel clima di libertà ritrovato i partiti politici si impongono alla società, soprattutto i maggiori che agiscono come agenzie di integrazione sociale. Si può anche sostenere che le violenze nel 1947 finiscono perché il Pci è riuscito a conquistare l’egemonia che prima non aveva sulla sua parte di società, integrando i riottosi attraverso la «doppiezza» togliattiana e la conseguente educazione al metodo democratico.
Il fatto poi che violenze così estese siano state limitate ad alcune provincie emiliane starebbe proprio a dimostrare che quella violenza non era la linea del Pci, ma una aberrazione subita anche dal Pci. E qui, come si vede, siamo agli esatti antipodi da Fantozzi. Finché non ci saranno ulteriori studi sul periodo, con la consultazione degli archivi comunisti, la “querelle” è destinata a rimanere aperta.
Resta il fatto tuttavia che tutti dobbiamo rispettare e onorare le vittime di quegli anni terribili. Leggere e commentare il libro di Fantozzi può essere un modo per far sì che eventi del genere non abbiano a ripetersi.



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GAZZETTA DI MODENA, 13 giugno 1990, pagina 12

Nuova replica alle tesi del libro “Vittime dell’odio”

«GLI ERRORI DI FANTOZZI»
La polemica sulle violenze dei partigiani


di Roberto Gazzotti

Che Giovanni Fantozzi ci tenga a ribadire le tesi espresse nel suo libro «Vittime dell’odio» è naturale e comprensibile. L’ho scritto e lo ripeto: Fantozzi ha fatto un’otima ricerca su una pagina oscura della storia modenese. Tuttavia c’è un punto sostanziale sul quale dissento, ed è quello relativo al fatto se le uccisioni di preti, possidenti, agricoltori, commercianti, attivisti democristiani da parte di partigiani comunisti nel biennio 1945 – 1946 siano da considerare «frutto di un moto spontaneo popolare di vendetta» oppure debbano «essere inquadrate nel particolare clima di tensione politica e sociale alimentato dal Pci nell’immediato dopoguerra». Io propendo per la prima tesi, e fornisco di seguito alcuni motivi di riflessione con citazione di testi non utilizzati da Fantozzi.
Così illustra la politica comunista degli anni ’40 lo storico americano Donald Blackmer in un saggio contenuto nel volume «Il comunismo in Italia e in Francia» (Etas libri): «Dal giorno dell’aprile 1944 in cui Togliatti proclamò la svolta di Salerno con la quale il Pci acconsentiva ad entrare in una coalizione di unitè nazionale sotto il re e il maresciallo Badoglio al giorno, tre anni più tardi, in cui il partito fu estromesso per opera di De Gasperi dalla coalizione governativa, la strategia del partito fu guidata da un motivo dominante: evitare l’isolamento e partecipare al governo in collaborazione con altre forze antifasciste. Riconoscendo la necessità di operare nell’ambito di un sistema capitalistico, il partito limitava i suoi obiettivi dichiarati a riforme generali. La politica economica produttivistica era tesa a ridurre la conflittualità operaia e a mantenere la disciplina nelle fabbriche come prezzo necessario per la ricostruzione dell’economia (…) Le testimonianze storiche non lasciano dubbi sul fatto che la famosa svolta di Salerno era intesa direttamente a favorire gli interessi diplomatici sovietici (..) Molti dei quadri e dei membri più devoti non riuscivano ad accettare alla lettera la strategia di collaborazione, la ritenevano solo una necessità tattica. Questa tensione serpeggiante nella base testimonia la difficoltà di usare un’organizzazione dichiaratamente rivoluzionaria, costruita nella tradizione bolscevica, per fini non rivoluzionari» (pagg. 15 – 33).
Commenta Giorgio Galli nel suo libro «Storia del Pci»: «La borghesia italiana e i suoi interpreti politici avevano del comunismo un’idea imprecisa e un timore grande, per cui ritennero per tutto un peridodo che questo manovrare corrispondesse a un machiavellico disegno dal quale occorreva guardarsi. E poiché altrettanto imprecisa era la conoscenza del loro partito e altrettanto grande la speranza e la fiducia di coloro che ne ingrossavano le fila nella primavera del 1944, entrambe le classi protagoniste di quella fase della storia italiana giudicarono il Pci e la sua linea politica non quale essa era in realtà ma come si pensava essa dovesse essere. Più Togliatti diceva la verità, meno veniva creduto».
Rispetto ai partigiani Galli scrive: «La maggioranza di essi è comunista, anche se, come gli anni successivi dimostreranno, moltissimi tra loro non lottano per le stesse prospettive del gruppo dirigente che determina la linea del partito (…) Il Pci si mette dunque alla testa dell’insurrezione per dirigerla, incanalarla, non farla deviare dagli obiettivi limitati che la sua linea politica ha prefissato (…) L’intervento dei dirigenti più politicizzati pose rapidamente termine alle iniziative spontanee mentre, epilogo di una sanguinosa guerra civile, le esecuzioni dei fascisti continuarono ancora per qualche tempo» (pagg. 235 – 253).
Nel suo libro «Comunisti al potere. Economia, società e sistema politico in Emilia Romagna: 1945 – 1965» (Marsilio editore) Franco Piro annota: «Quanto più la Resistenza era stata vissuta come speranza rivoluzionaria, tanto più la vittoria veniva considerata una tappa intermedia e la rivoluzione proletaria era considerata possibile se non necessaria. Liberazione e rivoluzione si compenetravano a vicenda: il partito doveva continuamente intervenire sui suoi militanti per ribadire il carattere unitario e democratico dell’antifascismo. L’ossatura del partito si modella sul corpo della Resistenza. Sul partito si abbatte la durezza dei processi repressivi che indubbiamente amplificarono e strumentalizzarono comportamenti eversivi pure presenti. I leaders del centrismo utilizzarono ampiamente la situazione emiliana in funzione anticomunista. L’ampio spazio che la stampa moderata locale dà all’iniziativa segnala un indubitabile attacco politico che certamente vi fu contro il movimento partigiano».
Quindi Piro prosegue: «Nel gennaio 1949 il deputato democristiano Braschi chiede l’insediamento di una commissione di parlamentari per condurre un’inchiesta sui fatti di sangue commessi per mano partigiana durante e dopo la Liberazione. I parlamentari di sinistra si associarono alla richiesta (della commissione fanno parte tra gli altri Terracini, Pertini, Gullo e il generale Roveda): La scelta fu lucida e coraggiosa perché dava la forza di individuare le montature e le esagerazioni. Così accadde che proprio Scelba (il ministro dc dell'interno, n.d.r.) ostacolò l’attività della commissione. Forse non è lontana dal vero la conclusione fatta dall’ispettore Cristallo nella sua relazione al Ministero degli interni: “Gli accertamenti vari conducono ad affermare che la maggioranza dei responsabili è costituita da elementi partigiani comunisti e da filocomunisti. Ciò naturalmente non implica la responsabilità del Pci, in quanto potrebbe trattarsi di espressioni autonome, incontrollabili dal partito”» (pagg. 47 – 49).
Come dimostrano queste ampie citazioni, il quadro generale di riferimento a livello nazionale è molto più complesso e sfaccettato di quello unilaterale e manicheo proposto da Fantozzi. Emerge soprattutto che il Pci non è mai stato quel monolite che la propaganda comunista vuol far credere (e che anche Fantozzi inopinatamente accredita), ma è stato aspramente diviso, con parte della base che non accetta la politica del vertice e quando può agisce per conto suo, contro quella che giudica l’accomodante politica romana del Pci che va a braccetto con industriali, Vaticano, Monarchia e concede l’amnistia ai fascisti, contro la «moderata» linea Togliatti dettata da Stalin che mette in soffitta la rivoluzione in Italia per tutelare gli interessi geostrategici sovietici. Questi conflitti tra miliatnti, dirigenza locale e dirigenza nazionale sono esistiti anche a Modena, e possono spiegare la nascita delle «squadre della morte», ribelli contro il «moderatismo» del partito. In questi casi, chi rappresenta il Pci: Togliatti o il partigiano ribelle che diventa «compagno assassino»? Nella risposta a questa domanda c’è tutto il succo della polemica tra Fantozzi e me. Io rispondo: Togliatti.
Comunque in sede locale mancano studi approfonditi su questo peridodo e su questi argomenti. Eppure molti testimoni degli avvenimenti sono ancora vivi e vegeti: perché tengono la bocca chiusa e non ci fanno invece conoscere come andarono le cose in quei fatidici giorni? Perché su una cosa concordo con Fantozzi: «È bene che anche il Pci modenese faccia un approfondito esame di coscienza su quegli anni buoi ed i tristi effetti che ebbe lo stalinismo nella nostra provincia. La credibilità democratica non si conquista tirando comodi colpi di spugna sul passato». Specialmente se si ritiene di essere con la coscienza a posto.

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