martedì, novembre 11, 2003

MARIO PECORARO, UNA VOCE FUORI DAL CORO

QUELLA CHE SEGUE È L'INTRODUZIONE CHE HO SCRITTO PER IL NUOVO LIBRO DI MARIO PECORARO UNA VOCE FUORI DAL CORO. CRONACHE CARPIGIANE ... E NON SOLO NUOVAGRAFICA, CARPI 2003, PP120, € 7.00

Un filo rosso collega gli scritti raccolti in questo volumetto da Mario Pecoraro: quello dell’impegno dell’intellettuale libero per una cultura autonoma dalla politica (e dai carrozzoni gestiti in nome e per conto del potere politico), quindi per una cultura partecipata ed autogestita dai protagonisti. Risale al maggio 1980 il primo articolo riproposto in queste pagine, dal titolo profetico “I cittadini protagonisti della politica culturale”. Fu pubblicato sul periodico Luce dei socialisti carpigiani, e prendeva di mira la politica culturale sviluppata a Carpi dal Comune «talvolta anche lodevolmente (per esempio, l’attività teatrale) ma in modo accentratore, promuovendo, coordinando e gestendo la cultura: è stato insomma l’inizio e la fine di ogni iniziativa culturale». Precisando: «Credendo fermamente nel pluralismo, nella partecipazione, nel decentramento, noi socialisti non possiamo non esprimere un rifiuto netto per l’Ente locale quale macchina “dispensatrice” di cultura. A questa presenza totalizzante noi intendiamo contrapporre una articolazione diffusa di centri e momenti culturali sì da rendere possibili esperienze significative di autogestione, partecipazione e corresponsabilità culturale. Per noi la cultura non è un fatto di pianificazione istituzionale, ma una linfa che deve circolare in diversi organismi».
Naturalmente all’epoca l’articolo fu oggetto di scandalo, scherno e disapprovazione da parte del ceto intellettuale che allora (e tuttora) si pasce di pubbliche elargizioni o è dipendente stabile dei minculpop locali. (Per gli smemorati Minculpop è l’abbreviazione di Ministero della Cultura Popolare, istituito dal regime fascista per controllare e dirigere la gente, indottrinandola. Tipica istituzione totalitaria, figlia e concorrente dell’esperienza politica del comunismo sovietico - ispiratore peraltro di molte “intuizioni” mussoliniane - che ancor oggi anacronisticamente sopravvive seppure spezzettata territorialmente negli assessorati di Regioni, Province e Comuni). All’epoca Mario Pecoraro simpatizzava per i socialisti, quando il nuovo corso indipendentista intrapreso dal segretario nazionale di quel partito, Bettino Craxi, puntava parecchio sul rinnovamento culturale della società e della nazione italiana.
Mario Pecoraro è rimasto fedele all’idea di cultura autonoma ed autogestita perorata allora dai liberalsocialisti, anche se rimasto senza partito e rifuggendo ormai l’impegno politico diretto. L’ultimo scritto che appare in questo volume, sulla mostra “infelice” ed “antisemita” ospitata dal Museo al Deportato politico e razziale di Carpi, dell’aprile 2003, a un quarto di secolo di distanza, ne è la testimonianza. E in mezzo ci sono tanti esempi, dallo “scippo” municipale delle celebrazioni per l’anniversario della morte di Alfredo Bertesi allo scandalo del “Falco magico”, al rifiuto pubblico di collezioni private offerte gratuitamente alla municipalità.
Una concezione della cultura autonoma e libera che appare nell’Italia odierna piuttosto orfana e minoritaria. Prosperano infatti a livello locale gli assessorati che pretendono di produrre in proprio “cultura”. Non più magari in nome della classe operaia, o della Chiesa, quanto piuttosto del dialetto o di nostalgie duchiste. Sempre e comunque imposte dall’alto ad un pubblico che assiste, e a volte applaude anche, ma spesso sbadiglia e si volta da un’altra parte. Prospera a livello nazionale un’azienda televisiva, Mediaset (il nuovo vero Minculpop nazionale, che in ciò ha sostituito la vecchia Rai democristiana), il cui proprietario, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, decide i palinsesti e gli organigrammi anche della tv pubblica, controllando il 90 per cento delle risorse economiche del settore televisivo, e che è quanto di più possibile lontana dall’idea di cultura partecipata ed autogestita.
La carta stampata, che dal Settecento, quando secondo Jürgen Habermas nacque l’opinione pubblica, ha rappresentato lo sfogo e il mezzo privilegiato dello scambio e della circolazione delle idee, a livello locale non offre ospitalità in maniera continuativa agli spiriti critici come Mario Pecoraro, che all’attività professionale propria affiancano anche quella pubblicistica (laureato in Lettere classiche, Pecoraro ha insegnato materie letterarie nelle scuole medie, e, appassionato di storia, ha pubblicato diversi volumi sulla storia del Risorgimento e del socialismo locale, nonché svariati interventi su riviste specialistiche).
Gli scritti di questo volume sono prevalentemente articoli di giornale, ma, come si potrà constatare, appartengono a testate diversificate nel tempo. Mario Pecoraro scrive inizialmente su Luce, poi gli si aprono le pagine del quotidiano Il Giornale (gestione Giorgio Giusti), quindi è la volta della Gazzetta di Carpi (gestione Pier Vittorio Marvasi), c’è un intervallo decennale di silenzio poi è la volta di Modenapiù (gestione Roberto Gazzotti); l’ultimo scritto è rappresentato da una lettera al Carlino Modena. Non si tratta di un capriccio dell’autore, ma della disponibilità di una testata a pubblicare i suoi interventi. L’attività pubblicistica, infatti, soprattutto a livello locale, deve sottostare ad una serie di limitazioni. Innanzitutto, la scarsità di testate disponibili ad ospitare interventi indipendenti e potenzialmente critici verso potentati locali.
Nei giornali locali peraltro la cronaca ha la prevalenza su qualsiasi discorso critico o culturale, l’intervento pubblicistico serve da complemento o da arricchimento del prodotto, e come tale è soggetto agli umori di chi il prodotto lo confeziona. Se cambia il gestore, probabilmente cambieranno anche i collaboratori, se non ritenuti più interessanti dal nuovo arrivato. Il collaboratore ovviamente è esterno alla redazione, che può rendergli in alcuni casi impossibile la continuazione della collaborazione stessa, cestinandogli i pezzi, stravolgendoglieli o perfino rubandoglieli (quando un redattore si appropria di una idea o di un testo di un collaboratore apponendovi la sua firma: caso estremo ma realmente accaduto).
Molte testate locali poi sono effimere, non appartenendo a grandi gruppi dispongono infatti di risorse limitate e, visto il mercato ristretto dei lettori e degli inserzionisti, campano mediamente un paio di anni e poi sono costrette a chiudere. Oltre alle testate generaliste, che si occupano di tutto, ci sono parecchie riviste edite da enti o associazioni locali, ma per il taglio corporativo o l’enfasi pubblicitaria ed entusiastica non sono adatte a pubblicare interventi liberi più o meno critici e meditati (li rifiuterebbero immediatamente).
La mobilità tra le testate, quando sono disponibili, diventa quindi una necessità per chi, come Mario Pecoraro, sente l’urgenza di scrivere, di esprimere la sua opinione, non solo, ma anche di documentare la realtà che vive, che osserva, che giudica. L’importante è riuscire sempre a trovare una testata per cui scrivere in piena libertà, e non solo nella rubrica delle “lettere al direttore”. Come dimostra questo volume, il diritto di scrivere Mario Pecoraro se l’è conquistato con onore sul campo. A lui, e a chi come lui ha scelto per vocazione di scrivere, si addice quel che Max Weber sosteneva nel saggio Il lavoro intellettuale come professione - avendo l’accortezza di sostituire il termine politica con attività pubblicistica - (anche se occuparsi della cosa pubblica è cosa propriamente politica):
«La politica (attività pubblicistica ndr) consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia l’uno né l’altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venire meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: “Non importa, continuiamo!”, solo un uomo siffatto ha la “vocazione” per la politica (attività pubblicistica ndr)».

Roberto Gazzotti

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