mercoledì, settembre 18, 2002

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Commento di Marco Bertotto,
Presidente della Sezione Italiana di Amnesty
International,
in occasione dell’anniversario dell’11 settembre 2001



IL SACRIFICIO DEI DIRITTI UMANI
SULL’ALTARE DELLA SICUREZZA



In Bielorussia, una normativa approvata lo
scorso dicembre autorizza la perquisizione di edifici
senza l’approvazione dell’autorita’ giudiziaria. Il
sistema repressivo dell’Egitto ­ caratterizzato da
tortura e processi iniqui ­ e’ stato suggerito dallo
stesso governo del Cairo come modello efficace di
lotta al terrorismo per i paesi occidentali. In Pakistan,
gli emendamenti alla legge sulla sicurezza nazionale
mettono a rischio l’indipendenza della magistratura e
stabiliscono la partecipazione di personale militare alle
giurie chiamate ad occuparsi di processi per
“terrorismo”. L’atto sull’antiterrorismo introdotto lo
scorso anno nel Regno Unito consente la detenzione a
tempo indeterminato, senza accusa ne’ processo, di
cittadini stranieri sospettati di collusione con il
terrorismo internazionale. L’ordinanza sulla sicurezza
e l’ordine pubblico nello Zimbabwe, entrata in vigore a
gennaio, vieta le manifestazioni e criminalizza
chiunque esprima critiche nei confronti della polizia,
delle forze armate o del presidente Mugabe.
Sono, questi, solo alcuni degli episodi piu’
significativi per raccontare, senza troppi giri di parole,
in quale mondo viviamo ad un anno di distanza
dall’immane tragedia dell’11 settembre 2001.
Promulgando nuove leggi e facendo ricorso alla
vecchia brutalita’, in tante circostanze i governi - a
partire da quello degli USA, dove ora un sistema di
“giustizia di seconda classe” si fonda su detenzioni
arbitrarie e tribunali militari - hanno finito per
sacrificare i diritti umani sull’altare della sicurezza e
dell’antiterrorismo. L’obiettivo della “sicurezza a tutti i
costi” si e’ trasformato in un pretesto, quasi una
forma di legittimazione preventiva per colpire gli
oppositori e le minoranze e giustificare nuove forme
di repressione e di riduzione delle liberta’
fondamentali.
A ben pensarci, non c’e’ nulla di cosi’ nuovo nel
comportamento di governi che, esposti a situazioni di
particolare rischio ed emergenza, fanno ricorso a
misure straordinarie e si appellano alla dottrina della
sicurezza nazionale per limitare, sia pure in maniera
provvisoria, l’esercizio di taluni diritti fondamentali. La
vera novita’ che abbiamo di fronte sta nella diffusione
di un paradigma inedito, che considera apertamente i
diritti umani come un ostacolo alla sicurezza e ritiene
di poter sconfiggere il “terrorismo” con i soli strumenti
della repressione: intervenendo quindi esclusivamente
sui sintomi del fenomeno e non affrontando la radice
vera dei problemi di ingiustizia e privazione che, su
scala planetaria, rappresentano un terreno fertile per i
disordini e la violenza.
Inutile dire che questo approccio si e’ rivelato
fallimentare da ogni punto di vista. Innanzitutto
perche’ a promuoverlo sono soprattutto governi che
hanno “approfittato” del clima internazionale per
risolvere alcune spinose questioni interne: la Cina che
ha accentuato la persecuzione dei gruppi separatisti in
Tibet, Mongolia interna e Xinjiang e la Russia che ha
ottenuto un lasciapassare per intensificare la
campagna militare e repressiva in Cecenia.
Il pretesto della sicurezza internazionale ha
fornito la piu’ efficace delle coperture ai paesi che si
sono raccolti intorno all’alleanza globale contro il
terrorismo guidata dagli USA e ha prodotto
nell’opinione pubblica appariscenti fenomeni di
“indignazione a singhiozzo”: il mondo intero si e’
scandalizzato per l’imposizione del burqa, cui sono
state costrette per lunghi anni le donne afgane (in
verita’, non solo durante il regime dei talebani, e su
questo quanti rapporti di Amnesty International sono
passati inosservati!), eppure nessuno solleva il
problema dei diritti delle donne in un paese come
l’Arabia Saudita o a rischio di lapidazione in diversi
altri paesi; l’Iraq di Saddam Hussein e’ indicato oggi
come il piu’ sanguinario dei regimi tanto che e’ in
corso un intenso dibattito per valutare l’opportunita’
di un’operazione militare, ma gli abusi e la pressoche’
completa assenza di liberta’ e diritti politici in paesi
alleati (e mercati) come la Cina non sembrano
oggetto di preoccupazioni cosi’ diffuse.
Il paradigma della sicurezza che prevale a
livello internazionale non solleva dubbi solo dal punto
di vista morale e giuridico, ma anche da quello della
sua concreta efficacia. Siamo davvero convinti che un
mondo in cui a miliardi di persone sono negati i
fondamentali diritti umani, primo tra tutti quello alla
stessa sopravvivenza, possa essere reso piu’ sicuro
con leggi repressive, l’uso della tortura e
l’imprigionamento di qualche migliaio di stranieri
sospetti?
L’anno iniziato l’11 settembre 2001 si e’ aperto
con gli attacchi negli Stati Uniti e si e’ chiuso con il
recente attentato in Afghanistan contro il presidente
Karzai, l’alba e il tramonto di una giornata del mondo
attraversata ogni ora da piu’ violenza e piu’ terrore:
non basta questo a dimostrare che le misure
repressive e liberticide adottate fino ad oggi dai
governi non sono affatto servite a garantire maggiore
sicurezza per tutti?
Cio’ di cui abbiamo davvero bisogno,
soprattutto da un anno a questa parte, non e’ tanto
una guerra contro il terrorismo ma una mobilitazione
globale a favore dei diritti umani. L’11 settembre
2002 e’ una data simbolica che puo’ aiutare a
ricordarcelo!


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